venerdì 28 giugno 2013

L'Euro, la morte e il diavolo










È ormai opinione condivisa che l’Europa, colpita dalla crisi economica, si regga solo su un pilastro, quello economico e mancando quello politico possiamo, pertanto, sostenere che l’Unione Europea risulta essere incompleta ed asimmetrica. 
La costituzione degli Stati Uniti d’Europa avrebbe dovuto reggersi su due pilastri, L’Europa Politica, appunto e l’Europa Economica. La mancata attuazione della prima ha impedito, fino ad ora,  la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa.
Anziché attuare una Europa degli Stati, si è andata costituendo una Europa intergovernativa,  ciò è avvenuto anche a causa della mancata approvazione della Costituzione Europea, per cui il processo di costituzione degli Stati Uniti d’Europa ha subito un processo di involuzione.
Le radici stanno a monte. 
A causa delle difficoltà incontrate sulla strada verso l’Europa Politica si è avviato un processo incentrato sulla moneta unica, intesa quale strumento di armonizzazione e convergenza delle economie dei singoli Paesi con l’intento di giungere, successivamente, all’unità politica vera e propria.
La moneta unica per poter funzionare necessita, però, di tre condizioni: deficit fiscali e debiti pubblici contenuti, un tasso di inflazione analogo tra i vari Paesi e  sistemi economici armonizzati e convergenti.
L’armonizzazione e la convergenza implicano, inoltre, una gestione di equilibrio delle bilance commerciali dei vari Paesi e dei flussi di commercio intra-europeo. 
La gestione era, invece, caratterizzata da un eccessivo surplus dell’area tedesca e nordica che avrebbe richiesto di essere ridotto con una maggiore domanda interna e/o maggiore inflazione nelle aree con avanzi strutturali. 
Invece di procedere in tal senso, sono stati posti vincoli alle politiche di bilancio degli Stati con deficit commerciali e pressanti richieste, successivamente divenute vincolanti, di riforme strutturali concernenti il mercato del lavoro e la concorrenza dei mercati.
Questo processo si è scontrato con una conseguenza, in parte endogena, e con un accadimento, in parte esogeno.
La conseguenza endogena è il fatto che con la moneta unica non si è avviata quella armonizzazione ipotizzata delle economie dei vari Stati dell’Unione, anzi la moneta unica ha prodotto l’effetto, se non addirittura è stata utilizzata per rafforzare le differenze e le distanze tra Paesi. 
Invece di una convergenza vi è verificato il processo inverso sia nei tassi di crescita dei Paesi che nei flussi commerciali e finanziari tra gli stessi.
Secondo alcuni la “responsabilità” sarebbe imputabile alla politica dei Paesi deboli i quali, invece di apportare riforme strutturali, nei tempi richiesti, ai sistemi economici nazionali, ai mercati del lavoro, dei beni e delle attività finanziarie, hanno rimandato le necessarie riforme, portando così tali Paesi a “vivere al di sopra delle proprie possibilità”.
Secondo altri, sono stati invece i Paesi forti che hanno goduto di un vantaggio competitivo iniziale e in virtù di tale vantaggio hanno proceduto a passi forzati nelle riforme strutturali in un contesto nel quale la moneta unica li metteva al riparo dalle spinte di rivalutazione del cambio, mentre la stessa moneta unica metteva in difficoltà gli altri Paesi impossibilitati a svalutare. 
Indipendentemente da queste considerazioni, è indubbio che negli anni della moneta unica l’armonizzazione dei sistemi economici non si è realizzata; anzi la distanza tra Paesi forti o “virtuosi” e Paesi deboli o “viziosi” è aumentata, e le economie si sono divaricate.
Ne deriva che i differenziali dei tassi di crescita del reddito tra i Paesi sono aumentati, e sono cresciute anche le distanze tra i debiti pubblici e privati come conseguenza della crescita negli squilibri dei saldi commerciali.
A ciò si è aggiunta la crisi economica del 2008, in parte endogena ed in parte importata dagli Stati Uniti.
La prima risposta, come sappiamo, è stata quella di arginare la crisi nei mercati finanziari con l’intento di evitare che questa si propagasse ai mercati reali, cercando di arginare i fallimenti dei sistemi bancari, prima e il cosiddetto “credit crunch” nei mercati del credito ad imprese e famiglie, poi.
Mentre negli Stati Uniti veniva realizzata una tiepida politica fiscale espansiva abbinata ad una politica monetaria decisamente espansiva che portava i tassi di interesse a zero, in Europa, invece, il rigore fiscale è stato inizialmente alleggerito e la politica monetaria ha accompagnato la domanda di moneta sui mercati, mantenendo sempre controllato, però, il tasso di inflazione, essendo la stabilità dei prezzi l’obiettivo cardine della BCE. 
Le manovre contro la crisi non hanno impedito, però, che i deficit di bilancio ed i debiti, sia pubblici che privati, peggiorassero, in modo diseguale fra i Paesi dell’Unione Europea.
Come è noto questo ha prodotto una situazione per la quale, appena usciti dalla crisi del biennio 2008-2009, con i tiepidi segnali di ripresa nel 2010, si è ripiombati subito dopo in una crisi dei mercati finanziari europei e quindi delle economie reali nel 2011. 
A fronte di questa seconda crisi, mentre negli Stati Uniti si realizzavano politiche monetarie più espansive accanto a politiche fiscali non restrittive, in Europa si è risposto da subito con più rigore sui conti pubblici e sui sistemi di welfare, con l’obiettivo dichiarato del rientro dai deficit di bilancio e dai debiti pubblici, attuando  severe politiche di austerità, tramite riforme strutturali sui mercati del lavoro e dei beni e non intervenendo, invece, a sufficienza sui mercati finanziari.
Dopo una fase iniziale in cui sono state poste in discussione le politiche economiche liberiste e neo-liberiste ed i loro effetti negativi sul funzionamento dei mercati, a discapito della crescita e della occupazione, in Europa la logica con la quale si è risposto alla crisi dei mercati finanziari si è tradotta in un mix di rigore e liberismo: le perdite sono collettive mentre i guadagni sono individuali, principio che applicato al sistema finanziario in crisi, equivale a socializzare le perdite dei mercati scaricandole sui conti pubblici e sulla collettività, per poi addossare alla collettività anche la crescita dei deficit e debiti pubblici, imponendo misure di austerità e di riduzione del welfare in nome del rigore, trasferendo, eventualmente, sui mercati anche quote di welfare pubblico, la cosiddetta privatizzazione del welfare.
Il percorso sopra esposto non procede in modo lineare e nemmeno con quella rigidità che alcuni studiosi liberisti e neo-liberisti auspicherebbero. 
Ciò per una serie di ragioni. La principale è che negli Stati Uniti la linea dell’austerità e del libero mercato che intendeva garantire ancor più ricchezza ad una ristretta fascia della popolazione, non è premiata dall’elettorato, per cui si confermano politiche monetarie espansive mentre sulla politica fiscale prosegue la contrapposizione tra linea liberista e linea non-liberista, come è avvenuto sul "fiscal cliff".
In secondo luogo, in Europa la linea dell’austerità produce danni gravi: gli effetti economici che essa provoca sono notevoli sia sulla crescita del reddito, sia sulla stabilità dei conti pubblici, ed anche destabilizzanti sul piano politico in quanto siamo in corrispondenza di elezioni imminenti nei Paesi importanti.
I Paesi deboli, in ragione delle politiche di austerità a loro imposte, stanno pagando sia con la progressiva riduzione dei redditi e dell’occupazione, sia sotto forma di peggioramento di deficit e debiti pubblici che, invece, si volevano migliorare. 
Il peggioramento ha superato le più fosche previsioni, poichè, come osservato dal Fondo Monetario Internazionale, sono stati sottostimati i moltiplicatori della politica fiscale, per cui le misure restrittive hanno avuto impatti negativi sul reddito superiori a quelli previsti, determinando tassi di crescita molto negativi del PIL nei Paesi più deboli, ad iniziare da Grecia e  Portogallo e poi  anche Spagna ed Italia.
Ad onor del vero, un rallentamento significativo della crescita in tutta l’area Euro tocca anche la Germania per la quale si hanno previsioni economiche negative. Tutto ciò contribuisce a sollevare forti dubbi sulla scelta del rigore ad ogni costo. In Europa, infatti, vi sono istituzioni, forze politiche e sociali ed anche economisti avveduti, che in qualche modo hanno indotto un aggiustamento, seppur insufficiente, nelle politiche di rigore. Sono stati introdotti strumenti che hanno conferito più potere alla Banca Centrale Europea al fine di intervenire con operazioni monetarie tali da influenzare i mercati finanziari ed il comportamento delle istituzioni finanziarie e creditizie.
Sappiamo però che gran parte della liquidità immessa dalla BCE è servita alle banche per finanziarsi a basso costo ed acquistare titoli pubblici con rendimenti superiori al tasso pagato alla BCE medesima, piuttosto che soddisfare la domanda di prestiti da parte di imprese e famiglie, cosa che avrebbe prodotto effetti positivi sull’economia reale. Occorre anche riconoscere che questa liquidità era  necessaria alla ricapitalizzazione richiesta dai vincoli più stringenti previsti dalla revisione degli accordi di Basilea.
In ogni caso gli effetti negativi della politica di austerità permangono tutt’ora, nonostante si sia allentata la tensione sui mercati finanziari e sugli spread tra titoli pubblici emessi nei diversi Paesi. 
Nel frattempo, però, gli squilibri nei saldi commerciali tra Paesi dell’area Euro sono in aumento. Questi squilibri sono uno dei problemi della crisi europea, con i Paesi forti che hanno costruito la loro crescita sulla componente della domanda estera, all’interno del mercato europeo, piuttosto che extra-europeo, in un gioco che è tendenzialmente a somma zero in quanto le esportazioni dell’uno sono le importazioni dell’altro e conseguentemente i deficit ed i debiti dell’uno sono gli avanzi ed i crediti dell’altro.
La visione di una priorità dell’economia sulla politica ha prodotto un’evoluzione negativa, poiché si è privilegiata la ricetta dell’austerità a scapito della crescita. 
Tale evoluzione è stata governata da una visione liberista dell’europeismo, contrapposta ad una visione che interpreta l’europeismo in termini di economia sociale di mercato. 
Il governo dell’Unione Europea e della sua politica economica in primo luogo, è stato appannaggio di una linea politica conservatrice. Anche indipendentemente dagli equilibri politici nei vari Paesi, che sono mutati e continuano a mutare nel tempo, la sintesi che è emersa in ambito europeo è stata più affine al liberismo che al riformismo. 
Il prevalere della visione liberista ha privilegiato il  rigore in campo economico, la supremazia dei mercati rispetto al mantenimento del welfare, alla introduzione di vincoli sempre più stringenti nel campo delle politiche fiscali ed alla deregolamentazione del mercato del lavoro. 
In questa visione la competitività deve essere rivolta soprattutto verso i mercati esteri, ridimensionando i mercati interni, e deve essere realizzata utilizzando tutti gli strumenti di flessibilità possibili per accrescere la capacità di esportazione.
Non potendo più utilizzare lo strumento della svalutazione, alcuni Paesi, Italia compresa, ne hanno sofferto più di altri, mentre la stabilità della moneta unica ha consentito ad altri, Germania in primis, di evitare quella rivalutazione della moneta nazionale che certamente sarebbe avvenuta a seguito di avanzi sempre più consistenti dei loro scambi commerciali. 
Un effetto collaterale di questa politica è sicuramente una crescita contenuta, una bassa occupazione e, conseguentemente, una crescita delle disuguaglianze. Questo effetto può essere arginato da un sistema di welfare minimale e da mercati che si preoccupano di sostituire il welfare privato dei sistemi assicurativi al welfare pubblico.
E’ assolutamente indispensabile porre in essere alcune azioni prioritarie se si vuole addivenire alla completa  realizzazione degli Stati Uniti d’Europa.
Queste consentirebbero all’Europa, e quindi all’Italia, di riprendere quel sentiero di crescita che ha come obiettivo principe la piena occupazione ed il benessere collettivo. Solo nell’ambito di queste azioni cardine si aprono le possibilità di intraprendere specifiche politiche strumentali che permetterebbero al progetto di progredire attraverso una politica di crescita e occupazione.
Occorre, innanzitutto, ampliare i poteri, le competenze e gli strumenti della BCE in modo che questa possa operare come effettiva Banca Centrale, con il compito di garantire condizioni di solidità della moneta unica sui mercati internazionali, salvaguardando le politiche fiscali dagli attacchi della speculazione, a differenza di quanto avviene ora con la BCE che si limita a controllare la dinamica delle variabili monetarie che influenzano la dinamica dei tassi.   
E’ altrettanto importante pervenire alla emissione di eurobonds, per  finanziare progetti europei di ampia dimensione che possano innescare la crescita delle varie economie europee oltre a stabilizzare la gestione dei debiti pubblici nazionali e creare, in tal modo, un mercato di titoli pubblici europei basati su garanzie reali.
A livello comunitario, sarebbe opportuno che gli investimenti pubblici finanziati nei bilanci nazionali fossero consentiti e non vincolati dalle regole poste dal Patto di Bilancio Europeo anche detto “Fiscal Compact”, del marzo 2012, ciò al fine di poter utilizzare la politica fiscale per contrastare la crisi e favorire la crescita.
Altro punto da rivedere sarebbe la dimensione del bilancio pubblico europeo che ora pesa solo per l’1% del prodotto interno lordo degli Stati membri. L’incremento del budget a disposizione della Commissione Europea consentirebbe di supportare interventi più importanti per il riequilibrio strutturale tra i Paesi dell’Unione.
Occorre, inoltre, accelerare l’armonizzazione fiscale in ambito europeo, rendendo omogenei i regimi fiscali applicati in ciascun Paese membro. L’attuale presenza di sistemi fiscali molto divergenti costituisce un evidente incentivo a praticare politiche nazionali competitive tra gli Stati dell’Unione, vanificando, in tal modo, l’efficacia delle politiche fiscali, di quelle industriali e delle politiche del lavoro.
Il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, deve essere impostato non solamente sul consolidamento dei debiti nazionali, ma anche sul riequilibrio dei flussi commerciali tra gli Stati membri. E’ essenziale, inoltre, rivedere le scadenze entro cui gli Stati maggiormente esposti dovranno procedere alla riduzione dei debiti sovrani.
Gli squilibri dei flussi commerciali sono all’origine delle tensioni sulla moneta unica. Le politiche di coordinamento devono operare sui Paesi con deficit strutturali, chiedendo a questi di realizzare riforme dei loro mercati interni, ma anche e soprattutto sui Paesi con avanzi strutturali delle loro bilance commerciali, indicendoli a sostenere la loro domanda interna anziché basare la propria crescita solo sull’esportazione.
Infine, poiché gli strumenti della “ponderazione del rischio” e della “capitalizzazione”, introdotti con Basilea 2 e Basilea 3, si sono dimostrati inefficaci ed in parte anche controproducenti, sarebbe opportuno intervenire sul sistema bancario, accrescendone il controllo, sia attraverso la tassazione di specifici strumenti finanziari, sia vietando specifiche attività e transazioni.
In effetti, il sistema bancario ha perso le sue funzioni di sostegno all’economia reale, alle imprese ed alle famiglie, essendo venuta meno la separazione tra attività bancaria di deposito e l’attività bancaria di rischio, introdotta a seguito delle crisi bancarie di inizio secolo scorso.
E oggi necessario intervenire per cambiare l’Europa che abbiamo, gli Stati Uniti d’Europa rimangono e devono rimanere la meta verso la quale indirizzare la politica e l’economia. 
L’Europa che abbiamo è, purtroppo, quella nella quale la moneta unica, per errori commessi al momento della sua introduzione, impone vincoli e regole che penalizzano il percorso e che devono essere cambiati. 
Nonostante l’attuale situazione di crisi economica e strutturale, ritengo di poter essere fiducioso sul possibile completamento del processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa e a tal fine, per una formulazione di buon auspicio, vorrei trarre spunto da un'opera di Durer, la famosa incisione “Il cavaliere, la morte, il diavolo” che l’artista dipinse nel 1513.





Vediamo il cavaliere, che io identifico nella moneta unica, procedere in una gola impervia, dietro di lui è il diavolo, che nella mia visione associo alla speculazione internazionale. Accanto a lui, quasi a sbarrargli la strada, cavalca la morte, rappresentata, non a caso, come dio del tempo, con le insegne della distruzione e del ritorno, il serpente e la clessidra. 
La clessidra è bene in vista davanti al cavaliere. In questa immagine tuttavia, si evince come il cavaliere non sembri prestare la minima attenzione né al diavolo, né alla morte, ma avanza per il sentiero con la visiera alzata, sinonimo di sicurezza, immerso nei suoi pensieri. A noi che lo guardiamo il quadro comunica un senso di fiducia, avvertiamo infatti che il cavaliere è perfettamente all'altezza della situazione. Infatti, in lontananza, molto in alto, si intravede una rocca, forse gli Stati Uniti d'Europa, comunque una fortezza al di là e al di fuori del tempo, luogo sicuro, anche nel caso che la clessidra si rompa. E' infatti la clessidra stessa che infonde al cavaliere la sua imperturbabilità. Ci è dato pensare che il cavaliere riuscirà a superare la gola già nel tempo della sua vita mortale, ce lo rivela lo spirito complessivo dell'incisione ed il fatto che, l'ampolla superiore della clessidra è ancora quasi piena, quindi vi è ancora tutto il tempo per raggiungere la meta.


giovedì 27 giugno 2013

I delitti della logica









Un libro che mi è ricapitato in mezzo alla polvere.
Forse gli oggetti rinvenuti dopo tanto tempo,magari anche un pò nascosti da un primo sguardo ed accompagnati da quella sana polvere del tempo, sono quelli più preziosi e portatori di sensazioni e suggestioni ogni volta sempre diverse ed originali.
Si tratta di un piccolo libricino che ha accompagnato i miei ultimi anni all'Università una decina di anni fa. Ricordo addirittura l'esame che preparavo allora:"Metodologia e Tecnica della Ricerca Sociale". Esame con una bibliografia infinita, tra cui anche alcune opere di logica tra le quali figurava questo piccolo libricino scritto dal Prof.Ermanno Bencivenga.
Si tratta de "I delitti della logica".
Una raccolta di piccole storie,parabole che celebrano la potenza dell'uso della ragione anche quando ciò porta a conseguenze estreme: sacrificare sè stessi e gli altri.
La morale del libro è verso un uso costruttivo e non distruttivo della ragione.
Soprattutto in tempi come questi in cui l'elemento tecnologico è imperante e dominante nella vita degli individui e nella loro rete sociale, un uso della ragione critico e guidato dal buon senso riteniamo che sia opportuno e auspicabile.
Si domanda il Prof.Bencivenga:"Può il ragionamento ucciderci, la logica soffocarci, il pensiero dirottarci?  La riflessione è la nostra arma più potente, ci permette di prefigurare il futuro, di essere critici attenti del presente, di allargare enormemente la nostra visione della realtà. Ma, come ogni arma, può anche rivoltarsi contro di noi. E in una società come la nostra, sempre più tecnologica, l'onnipotenza della logica è un rischio reale".
Si tratta di riflessioni e domande che risalgono al lontano 1998, ma assolutamente reali e realistiche.
La questione in tempi come i nostri direi che è ampiamente aperta...

mercoledì 26 giugno 2013

Passaggio nel bosco








Non è la storia che inizia a cambiare di senso, semplicemente è che ciò che accade non è già più storia.
La rapida accelerazione con la quale cambiano non solo la società e gli stati, ci induce a supporre cause che non si possono spiegare in maniera soddisfacente, nè in base al presunto sviluppo storico, nè tantomeno in base a quello umano.
Questa accelerazione ci pone innanzi due effetti sopra tutti, afferenti tanto la filosofia che le altre arti e cioè che, il futuro sarà diverso dal presente ma che  sarà cosa  impossibile il prevedere in che cosa consisterà e come si svilupperà questa diversità. Il nostro stesso linguaggio trova difficoltà a descrivere tali mutamenti, dal momento che è costretto a riferirsi a categorie proprie al comprendere, continuamente superate. Ci torna in mente Lucio Anneo Seneca che, dinanzi all'incendio della città di Lione chiosava "Nihil privatim,nihil stabile publice est,tam hominum quam urbium fata volvuntur" e sicuramente 
questa chiusa ben si adatta alla nostra postmodernità. In questa bassa marea di tutto il mondo delle forme, dove le strutture delle mere condizioni di vita affiorano nude e prepotenti, l'alta politica torna in uno stato di sonno per dare luogo ad una politica prettamente economica, fine a sè stessa.





Il neologismo governance, inteso nel senso di arte del gestire, vocabolo che da un decennio impera tra i politici del mondo globale, sottintende che nei fatti la politica sia solo una faccenda di competenze e buona gestione, così però scompaiono i sogni e con essi, le rivoluzioni. Il concetto stesso di governance implica e certifica la fine della storia intesa come come quella di una società che si preoccupa dell'immediato, ma non ha più un avvenire.
Il nostro percorso vuole essere allora una sorta di passaggio al bosco, dove passare al bosco equivale a rompere, radicalmente, con il presente e comporta la scelta di un nuovo modo di essere e di sapere in opposizione al nichilismo imperante, volto specifico dell'astoricità. Infatti al nichilismo sarebbe insensato contrapporre le libertà ed i diritti formali tipici della società di massa o del liberalismo ultimo, del quale la governance è l'espressione. 
La libertà esige invece spazi vergini non sottoposti quindi all'azione omologatrice del sistema. Nel passaggio al bosco emerge  ancora, dalle nostre profondità abissali la dimensione intemporale del mito, capace di risvegliare quelle immagini eterne che, ad onta della civilizzazione, portiamo in noi. D'altronde quando cominciano a mancare le certezze, bisogna riconoscere senso soltanto agli esperimenti.

martedì 25 giugno 2013

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?

Presentazione


"Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?"






Abbiamo sempre pensato ad un blog che potesse essere e diventare terreno comune di confronto su tematiche, questioni, spunti e riflessioni afferenti al campo della filosofia, letteratura e sociologia a 360°, con  l'obiettivo e l'ambizione di poter divenire presto una sorta di "open space", di piattaforma digitale di confronto.
Vi chiederete come mai questo titolo al blog...
Ci sembrava il titolo più adatto per esprimere in modo organico il tentativo di cercare, di dare un'impressione di non staticità nell'affrontare tematiche afferenti ad aree disciplinari solo apparentemente distinte come la filosofia, la letteratura, la lettura della realtà sociale a tutto tondo e la lezione di Eraclito in questo senso è magistrale.
"Tutto si muove, tutto scorre", nulla resta immobile e fisso, tutto cambia senza eccezione.
Diceva Eraclito:" non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento si disperde e si raccoglie, viene e va; noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo".


Questo nasconde il senso più profondo di un qualsiasi viaggio intellettuale, tutto scorre nella convinzione che forse viaggi di questo tipo sono sempre viaggi probabilmente circolari.
Ho sempre pensato che percorsi di questo tipo più che orizzontali, monodirezionalmente orientati, siano circolari. Spesso non andiamo da A a B, il percorso intellettuale e non solo, è più complesso, forse proprio per questo circolare, come il viaggio dell'uomo e della donna nel mondo e nella vita in generale, nel loro microcosmo esistenziale.