venerdì 30 gennaio 2015

Il mondo nuovo - Ritorno al mondo nuovo

In tempi come quelli di questo ultimo decennio fortemente caratterizzati dalla variabile tecnologica ed evolutiva e dove spesso la realtà, le relazioni sociali e le emozioni stesse appaiono spesso o possono apparire quasi rarefatte, meno reali e vissuti a vantaggio di una dimensione digitale/virtuale che di sovente viene spesso a configurarsi come quella vissuta a discapito di quella reale che dovrebbe essere primaria, ma che invece spesso assurge come secondaria, non necessaria, mi sono venute in mente le riflessioni e le tesi profetiche di Aldous Huxley.



Nel 1932 mentre il mondo era ancora alle prese con la crisi economica che aveva investito America ed Europa e le dittature politiche si venivano progressivamente affermando, Huxley pubblica "Il mondo nuovo", pietra miliare della letteratura avveniristica.


In questo romanzo si prefigura ed ipotizza una società in cui il volto è mutato dalla scienza: una società pianificata in nome del razionalismo produttivistico, nemica di ogni "sovvertimento dell'Ordine e della Stabilità", sessualmente e biologicamente rafforzata e ristrutturata, votata all'assoluta perfezione.
Ogni emozione, ogni sentimento sono banditi e gli uomini ridotti a robot vivono in chiave di utopia un benessere che li rende schiavi del progresso.
27 anni dopo, nel 1959, nel saggio/commento "Ritorno al mondo nuovo", Huxley riesamina le tesi profetiche del 1932 alla luce degli avvenimenti di quegli anni notando come molte delle invenzioni avveniristiche presentate allora con ironia non fossero così lontane dalla realtà e come le organizzazioni nelle quali si assomma il potere stiano manipolando scientificamente i pensieri e i sentimenti degli uomini e delle donne, tentando di trasformare gli essere umani in automi.
In sintesi, un documento e un monito e allo stesso tempo una sfida all'uomo perchè difenda le proprie libertà.
A distanza di ben 83 anni dal primo romanzo e di 56 anni dal secondo, è sempre imbarazzante e in un certo senso inquietante il realismo di tali tesi profetiche, se riflettiamo su come la nostra vita sia sempre più scandita e governata anche nei rari momenti di libertà e stacco dalle freneticità del vivere quotidiano, dall'elemento tecnologico, sia esso smartphone, che pc o tablet nelle forme di auto-selfie o dubsmash e così via...
Ricordo e con queste parole vorrei terminare questo mio post, come Huxley chiuse il saggio/commento "Ritorno al mondo nuovo":
"Per adesso qualche libertà resta ancora nel mondo. Molti giovani, è vero, sembrano non darle valore. Ma alcuni di noi credono che senza libertà le creature umane non saranno mai pienamente umane e che pertanto la libertà è un valore supremo. Può darsi che le forze opposte alla libertà siano troppo possenti e che non si potrà resistere a lungo. Ma è pur sempre nostro dovere fare il possibile per resistere".
Parole che dovrebbero rappresentare per dirla alla Kant come una sorta di imperativo categorico.

venerdì 23 gennaio 2015

Amare la vita...

Salve a tutti...
Dopo oltre un anno di silenzio riprendiamo le attività sul nostro blog...
Purtroppo causa forze maggiori, altre urgenze e priorità della vita ci hanno distolto dalla passione e dal desiderio di comunicare sul blog tutto ciò che potesse ispirare riflessioni e considerazioni degne di una qualche significatività.
Probabilmente ogni tanto la vita e le sue contingenze ti portano ad interrogarti e a cercare di essere causativi verso certi nodi esistenziali da risolvere per non vivere in una condizione di eterno stand-bye.






Ad ogni modo, eccoci finalmente di nuovo qui a parlare di cultura, poesia, filosofia, sociologia e tutto ciò che la bellezza e la profondità della vita può darci ed offrirci come spunto di riflessione da condividere con tutti voi e con tutti quelli come voi che avranno piacere di seguirci e di continuare a seguirci...
In questa occasione a proposito proprio della nostra strada del ritorno, mi sono venuti in mente dei versi tratti da "I fratelli Karamazov" circa la bellezza e la singolarità della vita nonostante tutto e all'esigenza di amarla nonostante tutto...





L'episodio che mi piace ricordare è quando Alioscia e Ivan si incontrano dopo molti anni di lontananza, quando ormai sono divenuti estranei e sconosciuti l'uno all'altro. Le loro scelte di vita sono totalmente contrastanti: Alioscia è entrato come novizio nel convento dello stàrez Zosima, mentre Ivan è diventato negatore non solo di Dio, ma del mondo da lui creato, percepito come un "disordinato, maledetto e forse diabolico caos".
La ragione di Ivan che pure è giunta a questa conclusione, non riesce però ad appagarsene, poichè la negazione totale del mondo contrasta con il suo bisogno d'amore, con la sua volontà di vivere. Di lui aveva detto poco prima Alioscia:"La sua è un'anima tempestosa. Il suo intelletto è in catene. In lui c'è un alto pensiero che non trova soluzione..."

"... Della mia stessa commozione m'inebrio! Qui non si tratta di intelligenza, di logica: qui è con l'intimo dell'essere, è colle viscere che si ama: e sono le tue prime, giovani forze che tu ami... Intendi qualcosa del mio guazzabuglio, Alioscia: o forse no?, si mise a ridere Ivan.
Intendo benissimo Ivan: coll'intimo e colle viscere si sente voglia d'amare: l'hai detto tu magnificamente, e io non so dirti quanto son felice che in te ci sia tanta voglia di vivere proruppe Alioscia. Io penso che per tutti il primo dovere al mondo sia di amare la vita.
Amare la vita più che il senso di essa?
Senza dubbio, amarla anteriormente a ogni logica, come dici tu, e di necessità anteriormente a ogni logica, giacchè solo a questo patto potrò afferrarne il senso. Ecco quello che da un pezzo mi par d'intravvedere..."

Il dubbio finale di Ivan è quindi se sia possibile amare la vita quando la ragione non sembra offrire una spiegazione convincente del suo significato, ma in questo c'è sicuramente il fascino, il mistero e il senso della vita medesima.



martedì 8 ottobre 2013

L'apporto della Cibernetica alla Comunicazione




Fino agli anni Settanta la ricerca ha messo alla prova l’efficacia del ruolo dei media nella società.
Con Shannon e Weaver si propende per una teoria matematica dell’informazione che prevede un  trasferimento dell’informazione, obiettivo volto ad assicurare la massima efficacia del canale comunicativo. Si tratta di un modello di tipo lineare che si concentra quasi esclusivamente sul "procedimento" comunicativo.
Tale teoria è riuscita a sviluppare un concetto di informazione in cui questa esprime un’attitudine a convogliare significato, ma non un legame con particolari significati.
La teoria matematica dell’informazione è sorta per risolvere certi problemi di trasmissione dell’informazione lungo canali telefonici e telegrafici. E’ stata successivamente posta alla base dell’informatica, scienza di trattazione dell’informazione. Ciò ha comportato un’analisi in termini quantitativi molto avanzata. Dato un numero di eventi possibili, l’informazione fornita da ciascun evento è stabilita dal numero di eventi possibili e dalla probabilità del particolare evento.



Il supporto tecnologico all'informazione e quindi al fenomeno della comunicazione, può per altro essere considerato la conferma dell’intuizione di Norbert Wiener nella sua “Introduzione alla Cibernetica”, la cui tesi fondamentale è che la società può essere compresa soltanto attraverso lo studio dei messaggi e dei mezzi di comunicazione relativi ad essi e che nel futuro sviluppo di questi messaggi e mezzi di comunicazione, i messaggi fra l’uomo e le macchine, fra le macchine e l’uomo e fra macchine e macchine, sarà destinato ad avere una parte sempre più importante.




Per Wiener ciò che distingue l’uomo dagli altri animali è il dono della parola, quindi il fatto che egli possa comunicare.
L’informazione nella fattispecie, deve essere in qualche modo la misura della regolarità di un modello e in modo particolare di quei tipi di modelli noti come le serie temporali e cioè un modello le cui parti componenti si sviluppano nel tempo, laddove per modello si intende tutto ciò che si ripete in una successione di elementi o ciò che è comune ad un insieme di oggetti.
L’idea che generalmente abbiamo di un messaggio è quella di una comunicazione inviata da un essere umano all'altro, il comando in altri termini, non è altro che l’invio di messaggi che modificano il comportamento del ricevente.
Lo studio dei messaggi costituisce la scienza della cibernetica, con un termine che deriva dal greco che significa arte del pilotare o timoniere.
Secondo Wiener apprendere è sinonimo di feedback: “Feedback può riferirsi al successo o all'insuccesso di una semplice azione, ma può anche riferirsi ai più alti livelli, allorché l’informazione di tutta una strategia di comportamento è alimentata da meccanismi di risposta tesi a promuovere trasformazioni capaci di programmare nuovi comportamenti. Diventa pertanto evidente come il concetto di feedback può essere facilmente esteso al dominio dei gruppi sociali quali famiglie, aziende, nonché all'intera collettività.” 
E’ convinzione di Wiener infatti che il comportamento degli individui viventi sia parallelo a quello delle più recenti macchine per le comunicazioni: in entrambi infatti esiste un apparato speciale per raccogliere informazioni dal mondo esterno a bassi livelli di energia e per renderle utilizzabili nel comportamento dell’individuo o della macchina. In entrambi i casi questi messaggi esterni non sono utilizzati al loro stato naturale, ma dopo un processo interno di trasformazione operato dalle forze dell’apparato. Le informazioni sono tradotte quindi in una nuova forma utilizzabili dagli stadi successivi del funzionamento. L’azione viene eseguita sul mondo esterno e viene comunicata all'apparato centrale regolatore.
Il livello raggiunto dalle tecnologie di comunicazione, sia sul piano dell’elettronica che su quello del “trasporto a distanza” dei messaggi, definisce la comunicazione di massa come un sistema unitario integrato: unitario in quanto le reti di comunicazione sono ormai in grado di veicolare e trasmettere qualsiasi genere di messaggio e documento ai diversi mezzi a qualsiasi distanza, integrato poiché i diversi mezzi rappresentano elementi costitutivi di tale sistema che si muove verso una sempre maggiore integrazione.
Lo schema di spiegazione cibernetica si propone dunque come superamento sia di quello meccanicistico tradizionale che di quello organicistico. Come quello meccanicistico, esso propone modelli costruibili, analizzabili e capaci di indicare le cause specifiche di ogni fenomeno e quindi di spiegare le interdipendenze non facendo riferimento unicamente a certe proprietà dell’insieme, ma mostrando come funzionano i meccanismi che le provocano. D’altra parte esso è applicabile proprio a quei fenomeni che sembravano caratterizzare gli organismi: l’apprendimento, l’accumulazione di esperienza, l’equifinalità e la comunicazione fra un elemento e l’altro e tra un sistema e l’altro, non per impiego di energia, ma per trasmissione di messaggi .

giovedì 3 ottobre 2013

Governare la conoscenza







Il knowledge management è una risorsa centrale nel governo delle organizzazioni complesse nel contesto della globalizzazione.
Uno dei massimi esperti del knowledge management, Laurance Prusak, ha dato i fondamentali di una teoria che pone al centro della necessità di governo da parte di organizzazioni complesse, la gestione della conoscenza. Secondo la prospettiva di Prusak, non è la produzione materiale, ma quella intellettuale a diventare la vera ricchezza del mondo: intorno alle competenze e alle attitudini, alla capacità di lavorare in gruppo per produrre creatività e quindi nuova conoscenza, si gioca la partita dello sviluppo e della competitività, non solo nel campo della produzione economica, ma in tutte le organizzazioni. In questo contesto egli colloca il suo ragionamento intorno alla necessità di intendere la conoscenza come una risorsa strategica, un potenziale che va sviluppato e razionalizzato ai fini del raggiungimento degli obiettivi delle organizzazioni.
Secondo Prusak, l'insieme, la sommatoria di tutte le forme di conoscenza, genera il sapere complessivo dell'individuo che ne fa un essere unico e irripetibile portatore di ricchezza all'interno dell'organizzazione. Il segreto dello sviluppo secondo Prusak sta nell'incentivare questo insieme di individui a collaborare e a creare all'interno delle organizzazioni delle comunità di conoscenza. La vera conoscenza a suo avviso risiede nei gruppi che riescono a scambiare i saperi individuali e a creare nuova conoscenza.



La questione centrale è come governare questi processi di sviluppo della conoscenza.
La soluzione all'interno di strutture organizzate è forse quella  di sviluppare processi processi organizzativi orizzontali al posto di modelli gerarchico-verticali, così come ritenuto da Daniele Mezzana che ricorda come il KM non debba essere una tecnologia fine a sè stessa, ma debba essere utilizzata per agire sul mondo, per trasformare l'economia e la società, così come la conoscenza viene sempre solo attraverso l'azione e non il pensiero.
Non solo.
Luca Biggero, sottolinea come la conoscenza debba intendersi come il risultato di un'attività relazionale, reale o virtuale che sia. In questo senso appare evidente la centralità dei temi di rete e condivisione. In questo contesto ha osservato che "è importante vedere la conoscenza come scintilla che scocca solo quando si presentano differenze di potenziale: in una parola, la conoscenza nasce dalla presa di coscienza delle differenze".
Domenico Bogliolo si è spinto oltre parlando di un nuovo umanesimo, "una nuova centralità delle capacità umane a scapito della cieca fiducia nelle tecnologie e s'è anche stimolata la discussione sulla effettiva possibilità di governare un fenomeno così complesso e squisitamente culturale e quindi spirituale com'è la conoscenza".
Pertanto, così come ha anche ricordato da Giancarlo Quaranta, diviene essenziale per il mantenimento e il divenire del benessere della comunità e della società in generale, una corretta gestione della conoscenza, non come strumento di potere, ma al contrario, "come strumento di liberazione di energie oltre che come strumento di ricerca".

giovedì 26 settembre 2013

L'uomo e il progresso. Nuovi orizzonti possibili






Nelle scorse settimane è passata una notizia a mio avviso un pò sconvolgente e sottolineata non solo dai media tradizionali, ma degna di attenzione anche dalla rivista specializzata Focus, a proposito della possibilità della Cina con una tecnologia specifica, di poter incidere sul clima per combattere la siccità attraverso una tecnologia chiamata “cloud seeding”. 
Si tratta di una tecnica che si basa su reazioni chimiche atte a favorire la condensazione del vapore acqueo atmosferico e di conseguenza la formazione di nuvole cariche di pioggia. Le sostanze più usate sono il ghiaccio secco - anidride carbonica congelata - e lo ioduro d'argento nebulizzati direttamente nell'atmosfera tramite degli aerei speciali. E’ una tecnica che sembra funzionare visto che tra il 1995 e il 2003, la precipitazione complessiva della Cina è aumentato di oltre 7,4 miliardi di metri cubi. La Cina sta investendo nel clima risorse ingenti: oltre 37.000 addetti addestrati ad utilizzare cannoni anti-aerei da 37 millimetri, lanciarazzi e aerei modificati ad hoc per l'inseminazione delle nuvole. 
Questa notizia mi richiama alla mente il rapporto tra uomo e scienza, tecnica, tecnologia e progresso e se è eticamente accettabile e sostenibile uno sviluppo senza limiti anche nel suo rapporto con il sistema sociale di riferimento.



Mi sembra opportuno una ricostruzione e contestualizzazione del fenomeno in oggetto da un punto di vista sociologico.

Le mie riflessioni e il mio pensiero su questa complessa problematica muovono e traggono spunto dal pensiero del sociologo Enrico Taliani a proposito di “Mutamento e Razionalità – Per una sociologia dello sviluppo”.

Lo sviluppo come idea-progetto che porta l’uomo verso il nuovo ha il suo punto più elevato nelle teorizzazioni dei Philosophes (1700) quando interpretano la storia come un passaggio verso l’acquisizione di forme di convivenza sempre più orientate a fare della ragione lo strumento per la soluzione dei problemi dell’uomo.
Nell’uomo la ragione ha il compito di progettare la storia nel senso desiderato, nel disegnare il divenire come “impronta di un cammino di un genio che pervade individui e popoli”.
Il progresso designa un mutamento strutturale che incide ai vari livelli della società come moto perpetuo verso il nuovo che si caratterizza come migliore rispetto allo stadio precedente e la felicità stessa si pone come un bene a cui tutti possono aspirare, quindi si procede verso un'idea di progresso come ricerca del meglio. Quindi lo sviluppo diviene progetto all'interno di un quadro che pone come centrale il bene dell’uomo e la sua volontà di volerlo raggiungere.
E’ solo con la rivoluzione industriale che le idee di libertà, giustizia sociale, felicità, hanno trovato modo di esprimersi: il progresso da utopia diventa prassi e la tecnica diviene tecnologia, cioè esaltazione del processo interno ad una logica che tutto trasforma per realizzare obiettivi ad essa impliciti. Ecco quindi la tecnicizzazione del mondo come preludio all'umanizzazione dell’ambiente. Il nuovo dunque si pone come massima espressione dell’intelligenza illuminata dell’uomo.
La tecnicità esprime un modo di concepire l’esistenza e di rappresentare il divenire. Il limite si presenta come barriera che l’uomo vuole superare strumentalmente. 
In certi momenti storici tale “spinta” ha delle accelerazioni, altre volte ha dei rallentamenti. A questo proposito secondo Lilley la prima fase inizia nell’VIII° millennio e finisce agli inizi del III° A.C. In questo periodo l’uomo capisce che può trarre benefici dalle sue scoperte e renderle disponibili.
A questa fase ne segue un’altra in cui si perfezionano le tecniche, ma non c’è niente di nuovo.
Dopo il 2000 la spinta verso l’acquisizione di nuove tecniche aumenta lentamente fino ad arrivare ad un livello alto intorno al 1500-1700 A.C. Poi c’è una nuova caduta e una nuova ascesa nei 500 anni prima della nascita di Cristo.
In seguito (dopo greci e romani), a partire dalla fine dell’800 D.C. le scoperte si succedono di nuovo fino a raggiungere il climax in pieno Medio Evo.
A questo punto il ritmo delle scoperte diminuisce piano piano per poi aumentare con la rivoluzione industriale.
Il fatto che in certi momenti del corso storico della vita dell’uomo ci siano ritmi di incremento inferiori ad altri precedenti, è dovuto all’azione di elementi artificiali e cioè la struttura di una particolare società. Pensiamo ad esempio all’affermazione di una società che grazie alle conquiste tecniche si era strutturata sull’uso indiscriminato dello schiavo come produttore e fornitore di servizi. 
La pausa che intralcia l’andamento lineare del progresso tecnico va vista come elemento di negatività in quanto l’uomo utilizza la tecnica per creare condizioni di vita per loro natura selettive. Da una parte ci sono coloro che si avvalgono delle conquiste raggiunte con le nuove tecniche, dall’altra chi ne subisce i cambiamenti. 
Pensiamo solamente alla nostra epoca digitale e a coloro i quali cavalcano questa nuova era e a chi ne resta fuori, costituendo il cosiddetto fenomeno del “digital divide” che a mio parere sta divenendo sempre più, per chi ne fa parte, una nuova frontiera di marginalità sociale.






La tecnicità da espressione di un modo di intendere il nuovo come progetto di vita, si trasforma in strumento di oppressione. In questo modo si spinge l’uomo ad arricchirsi spiritualmente e culturalmente, ma non a modificare una società che si organizza per fare un uso ottimale di manodopera a basso costo. Le soluzioni vengono concepite all'interno di un quadro strutturalmente e socialmente statico.
L’invenzione non può essere scissa dal contesto storico-sociale in cui avviene.
In generale si può tranquillamente sostenere che la linea della tecnicità non è un processo lineare. L’andamento riflette circostanze e fatti che hanno influenzato la storia dell’umanità nei suoi vari momenti. Pertanto possiamo ritenere senza ombra di dubbio alcuno che:
1. Il progresso materiale viene ad identificarsi con livelli di tecnicità sempre maggiori
2. Il ritmo e il tasso di innovazione va colto in relazione al tipo specifico di società
3. La curva del progresso materiale non è lineare
4. Alla fine le invenzioni finiscono nel diventare strumento di divisione sociale

Le acquisizioni di nuove tecnologie comportano per l’uomo la necessità di strutturarle normativamente in quadri di riferimento che offrano l’opportunità di orientare la sua azione. Nasce così il sistema tecnico come un insieme di comportamenti che possono convergere, ma anche divergere dal sistema sociale di riferimento.
E così mi pare anche e soprattutto al giorno d’oggi.

sabato 14 settembre 2013

Lo spazio del sabato: "Italia, potenza scomoda"

Un saluto a tutti i nostri lettori...
Quest'oggi ad inaugurare questa nostra nuova rubrica "Lo spazio del sabato", è un amico, un giovane pubblicista, Alessandro Gnutti che ringraziamo per il contributo che ha realizzato per il nostro blog...




Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.
E’ la drammatica ricostruzione che Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il blog “Byoblu”. All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa». Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”. E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana avrebbe provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.
Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».
Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione». Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.
Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga». Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano». Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio. Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco. Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia, ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa». Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista. L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.
Prima, però, bisogna mandare casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».

Nuova rubrica del blog






Buongiorno a tutti...
Quest'oggi il nostro blog inaugura una nuova rubrica settimanale:"Lo spazio del sabato", all'interno del quale ospiteremo l'intervento, l'articolo, un semplice post da parte di coloro i quali avranno piacere di partecipare con un loro contributo alle tematiche ospitate all'interno di questo spazio virtuale, certi che il loro intervento apporterà nuova ricchezza di contenuti e varietà di spunti e stimoli rispetto a quanto fino a questo momento realizzato.
Grazie dell'attenzione,
Alessandro Chiesa e Simone Salandra