giovedì 26 settembre 2013

L'uomo e il progresso. Nuovi orizzonti possibili






Nelle scorse settimane è passata una notizia a mio avviso un pò sconvolgente e sottolineata non solo dai media tradizionali, ma degna di attenzione anche dalla rivista specializzata Focus, a proposito della possibilità della Cina con una tecnologia specifica, di poter incidere sul clima per combattere la siccità attraverso una tecnologia chiamata “cloud seeding”. 
Si tratta di una tecnica che si basa su reazioni chimiche atte a favorire la condensazione del vapore acqueo atmosferico e di conseguenza la formazione di nuvole cariche di pioggia. Le sostanze più usate sono il ghiaccio secco - anidride carbonica congelata - e lo ioduro d'argento nebulizzati direttamente nell'atmosfera tramite degli aerei speciali. E’ una tecnica che sembra funzionare visto che tra il 1995 e il 2003, la precipitazione complessiva della Cina è aumentato di oltre 7,4 miliardi di metri cubi. La Cina sta investendo nel clima risorse ingenti: oltre 37.000 addetti addestrati ad utilizzare cannoni anti-aerei da 37 millimetri, lanciarazzi e aerei modificati ad hoc per l'inseminazione delle nuvole. 
Questa notizia mi richiama alla mente il rapporto tra uomo e scienza, tecnica, tecnologia e progresso e se è eticamente accettabile e sostenibile uno sviluppo senza limiti anche nel suo rapporto con il sistema sociale di riferimento.



Mi sembra opportuno una ricostruzione e contestualizzazione del fenomeno in oggetto da un punto di vista sociologico.

Le mie riflessioni e il mio pensiero su questa complessa problematica muovono e traggono spunto dal pensiero del sociologo Enrico Taliani a proposito di “Mutamento e Razionalità – Per una sociologia dello sviluppo”.

Lo sviluppo come idea-progetto che porta l’uomo verso il nuovo ha il suo punto più elevato nelle teorizzazioni dei Philosophes (1700) quando interpretano la storia come un passaggio verso l’acquisizione di forme di convivenza sempre più orientate a fare della ragione lo strumento per la soluzione dei problemi dell’uomo.
Nell’uomo la ragione ha il compito di progettare la storia nel senso desiderato, nel disegnare il divenire come “impronta di un cammino di un genio che pervade individui e popoli”.
Il progresso designa un mutamento strutturale che incide ai vari livelli della società come moto perpetuo verso il nuovo che si caratterizza come migliore rispetto allo stadio precedente e la felicità stessa si pone come un bene a cui tutti possono aspirare, quindi si procede verso un'idea di progresso come ricerca del meglio. Quindi lo sviluppo diviene progetto all'interno di un quadro che pone come centrale il bene dell’uomo e la sua volontà di volerlo raggiungere.
E’ solo con la rivoluzione industriale che le idee di libertà, giustizia sociale, felicità, hanno trovato modo di esprimersi: il progresso da utopia diventa prassi e la tecnica diviene tecnologia, cioè esaltazione del processo interno ad una logica che tutto trasforma per realizzare obiettivi ad essa impliciti. Ecco quindi la tecnicizzazione del mondo come preludio all'umanizzazione dell’ambiente. Il nuovo dunque si pone come massima espressione dell’intelligenza illuminata dell’uomo.
La tecnicità esprime un modo di concepire l’esistenza e di rappresentare il divenire. Il limite si presenta come barriera che l’uomo vuole superare strumentalmente. 
In certi momenti storici tale “spinta” ha delle accelerazioni, altre volte ha dei rallentamenti. A questo proposito secondo Lilley la prima fase inizia nell’VIII° millennio e finisce agli inizi del III° A.C. In questo periodo l’uomo capisce che può trarre benefici dalle sue scoperte e renderle disponibili.
A questa fase ne segue un’altra in cui si perfezionano le tecniche, ma non c’è niente di nuovo.
Dopo il 2000 la spinta verso l’acquisizione di nuove tecniche aumenta lentamente fino ad arrivare ad un livello alto intorno al 1500-1700 A.C. Poi c’è una nuova caduta e una nuova ascesa nei 500 anni prima della nascita di Cristo.
In seguito (dopo greci e romani), a partire dalla fine dell’800 D.C. le scoperte si succedono di nuovo fino a raggiungere il climax in pieno Medio Evo.
A questo punto il ritmo delle scoperte diminuisce piano piano per poi aumentare con la rivoluzione industriale.
Il fatto che in certi momenti del corso storico della vita dell’uomo ci siano ritmi di incremento inferiori ad altri precedenti, è dovuto all’azione di elementi artificiali e cioè la struttura di una particolare società. Pensiamo ad esempio all’affermazione di una società che grazie alle conquiste tecniche si era strutturata sull’uso indiscriminato dello schiavo come produttore e fornitore di servizi. 
La pausa che intralcia l’andamento lineare del progresso tecnico va vista come elemento di negatività in quanto l’uomo utilizza la tecnica per creare condizioni di vita per loro natura selettive. Da una parte ci sono coloro che si avvalgono delle conquiste raggiunte con le nuove tecniche, dall’altra chi ne subisce i cambiamenti. 
Pensiamo solamente alla nostra epoca digitale e a coloro i quali cavalcano questa nuova era e a chi ne resta fuori, costituendo il cosiddetto fenomeno del “digital divide” che a mio parere sta divenendo sempre più, per chi ne fa parte, una nuova frontiera di marginalità sociale.






La tecnicità da espressione di un modo di intendere il nuovo come progetto di vita, si trasforma in strumento di oppressione. In questo modo si spinge l’uomo ad arricchirsi spiritualmente e culturalmente, ma non a modificare una società che si organizza per fare un uso ottimale di manodopera a basso costo. Le soluzioni vengono concepite all'interno di un quadro strutturalmente e socialmente statico.
L’invenzione non può essere scissa dal contesto storico-sociale in cui avviene.
In generale si può tranquillamente sostenere che la linea della tecnicità non è un processo lineare. L’andamento riflette circostanze e fatti che hanno influenzato la storia dell’umanità nei suoi vari momenti. Pertanto possiamo ritenere senza ombra di dubbio alcuno che:
1. Il progresso materiale viene ad identificarsi con livelli di tecnicità sempre maggiori
2. Il ritmo e il tasso di innovazione va colto in relazione al tipo specifico di società
3. La curva del progresso materiale non è lineare
4. Alla fine le invenzioni finiscono nel diventare strumento di divisione sociale

Le acquisizioni di nuove tecnologie comportano per l’uomo la necessità di strutturarle normativamente in quadri di riferimento che offrano l’opportunità di orientare la sua azione. Nasce così il sistema tecnico come un insieme di comportamenti che possono convergere, ma anche divergere dal sistema sociale di riferimento.
E così mi pare anche e soprattutto al giorno d’oggi.

sabato 14 settembre 2013

Lo spazio del sabato: "Italia, potenza scomoda"

Un saluto a tutti i nostri lettori...
Quest'oggi ad inaugurare questa nostra nuova rubrica "Lo spazio del sabato", è un amico, un giovane pubblicista, Alessandro Gnutti che ringraziamo per il contributo che ha realizzato per il nostro blog...




Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.
E’ la drammatica ricostruzione che Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il blog “Byoblu”. All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa». Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”. E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana avrebbe provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.
Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».
Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione». Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.
Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga». Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano». Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio. Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco. Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia, ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa». Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista. L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.
Prima, però, bisogna mandare casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».

Nuova rubrica del blog






Buongiorno a tutti...
Quest'oggi il nostro blog inaugura una nuova rubrica settimanale:"Lo spazio del sabato", all'interno del quale ospiteremo l'intervento, l'articolo, un semplice post da parte di coloro i quali avranno piacere di partecipare con un loro contributo alle tematiche ospitate all'interno di questo spazio virtuale, certi che il loro intervento apporterà nuova ricchezza di contenuti e varietà di spunti e stimoli rispetto a quanto fino a questo momento realizzato.
Grazie dell'attenzione,
Alessandro Chiesa e Simone Salandra


venerdì 13 settembre 2013

Democrazia e gruppi di pressione



La democrazia è generalmente intesa come un insieme di regole per la risoluzione pacifica dei conflitti. Le più importanti tra queste regole riguardano il principio di maggioranza, l’uguaglianza del voto, le consultazioni libere e periodiche, il rispetto dei diritti e delle minoranze. Accanto a questo tipo di democrazia (definita formale), ve n’è una (sostanziale) che fa riferimento ai contenuti della democrazia stessa, ma è assai più difficile da teorizzare in quanto presuppone l’esistenza di un unico codice etico che probabilmente eliminerebbe la stessa dialettica democratica.
Gli attori principali della democrazia sono i partiti politici e i gruppi di pressione/interesse.
I partiti politici hanno subito mutamenti sostanziali nel corso dei tempi: nell’800 erano presenti soprattutto partiti di notabili, comitati elettorali che sostenevano le candidature principalmente di nobili, medici, avvocati.
Sorgono successivamente partiti di massa caratterizzati da ideologie abbastanza precise, apparati, alto numero di iscritti e che svolgono un’attività politica continua. Si tratta di partiti di ispirazione socialista e cattolica e che talvolta, come nel caso del partito leninista, presentano una forte disciplina interna.
Negli anni ’60 si afferma il catch all party che indebolisce i riferimenti ideologici e si rivolge soprattutto ai cosiddetti gruppi di pressione che difendono interessi particolari e pur non partecipando alla lotta per il potere politico, rivolgono ai partiti le loro richieste.



In base alle modalità con le quali i gruppi di interesse e i movimenti comunicano con i detentori del potere politico, Almond e Powell rilevano quattro forme di gruppi di pressione:
  1. Gruppi di interesse anomico: ricorrono a forme illegali come sommosse, tumulti… Quindi adottano forme di partecipazione politica non convenzionale
  2. Gruppi di interesse non associativi: sono basati sull’etnica, sulla religione e sulla provenienza geografica
  3. Gruppi di interesse istituzionali: per esempio esponenti di burocrazie militari, membri di una religione
  4. Gruppi di interesse associativi: per la tutela dei propri iscritti
I loro punti di forza sono:

  •          Numero di iscritti
  •          Rappresentatività
  •          Risorse finanziarie disponibili
  •          Qualità ed ampiezza delle conoscenze utilizzabili
  •          Collocazione nel processo produttivo

Per Olson la stabilità politica, intesa come durata dei sistemi politici, favorisce la crescita numerica e organizzativa dei gruppi di interesse che chiedendo crescenti risorse da distribuire ai loro rappresentati, provocano  il “declino delle nazioni” a causa dell’indebolimento delle capacità produttive dei paesi nei quali essi operano.

La sfida di questi gruppi è importante anche per comprendere il declino dei partiti e della forma partito tradizionale e alcune anomalie della democrazia stessa.

giovedì 5 settembre 2013

L'UE tra euroscetticismo ed opportunità




Come premessa a questo nuovo articolo, ci premeva ringraziare sentitamente l’Associazione Famiglia e Valori, per la possibilità che ci ha concesso di essere ospitati all'interno del loro sito web, acquisendo in questo modo anche maggiore visibilità e numero di visite, di accessi e per un blog nato da poco, è una grande opportunità. (http://www.famigliaevalori.it/)
Inoltre la cosa ci rende ancora più felici ed entusiasti per l’assoluta condivisione valoriale per tutto ciò che Famiglia e Valori realizza sul territorio e per i principi e gli ideali che la governano e ne ispirano l’attività quotidiana come veri principi guida.

E un ringraziamento particolare alla persona di  Giovanni Gnutti, Presidente dell’Associazione Famiglia e Valori per  il confronto quotidiano con il quale ci è di stimolo continuo e contributo proficuo per l’attività  che da oggi anche grazie  l’Associazione, andremo a svolgere.

Nell'articolo di oggi vorrei affrontare una problematica magari delicata, sensibile, ma non per questo meno importante e significativa nella vita di tutti giorni, specie nell'ultimo decennio:  la questione sulla centralità nella vita degli Stati Europei e dei cittadini, dell’UE, tra scetticismo o meglio euro-scetticismo ed opportunità.



A proposito dell’attuale situazione europea e dell’odierna strategia politica comunitaria, sostiene Josè Manuel Barroso, Presidente della Commissione Europea:” La strategia Europa 2020 punta a rilanciare l'economia dell'UE nel prossimo decennio.  In un mondo che cambia l'UE si propone di diventare un'economia intelligente, sostenibile e solidale. Queste tre priorità che si rafforzano a vicenda intendono aiutare l'UE e gli Stati membri a conseguire elevati livelli di occupazione, produttività e coesione sociale. In pratica, l'Unione si è posta cinque ambiziosi obiettivi – in materia di occupazione, innovazione, istruzione, integrazione sociale e clima/energia – da raggiungere entro il 2020. Ogni Stato membro ha adottato per ciascuno di questi settori i propri obiettivi nazionali. Interventi concreti a livello europeo e nazionale vanno a consolidare la strategia”.
Ricordo circa la centralità dell’UE come istituzione politica che fin dagli inizi del XIV° secolo, il giurista francese Pierre Dubois auspicava la formazione di una confederazione europea retta da un consiglio di “uomini saggi e fedeli”. Furono solo gli orrori dei due conflitti mondiali a creare le premesse per un suo rilancio e cioè la volontà di prevenire un altro conflitto e la necessità di organizzare la ricostruzione del continente su una base più ampia di quella costituita dalle singole potenze a mettere in moto il processo di unificazione.
La ricostruzione europea costituiva un’opportunità di legare all’area economica degli USA, alcuni Paesi del vecchio continente, creando un blocco economico e politico alternativo a quello che si andava delineando tra i paesi comunisti dell’Europa orientale.
L’idea d’Europa origina e si struttura con l’azione strutturale (nasce con la stipulazione dei Trattati di Roma, si rafforza con il varo delle politiche comunitarie, prende forma e corpo con la costituzione dei fondi di investimento, si realizza con la progettualità comunitaria), passando attraverso un processo di integrazione politica, istituzionale (1951-52: CECA; 1957-58: CEE,EURATOM; 1986-87: ATTO UNICO EUROPEO che è una sorta di revisione dei Trattati di Roma), economica e di allargamento dell’unione.
Poste queste premesse non si può restare indifferenti ad una posizione che dovrebbe essere spuria, media tra un’esaltazione comunitaria a prescindere ed un freddo e cinico euro-scetticismo.

Ricordava il saggio Aristotele nella sua Etica nicomachea:” D’altronde la virtù ha per oggetto passioni ed azioni, nelle quali l’eccesso costituisce un errore e il difetto è biasimato, mentre il mezzo è lodato ed ha successo: e queste sono, ambedue, caratteristiche della virtù. La virtù è dunque una sorta di medietà, perché appunto tende al mezzo…
La virtù è dunque una disposizione che orienta la scelta deliberata, consistente in una via di mezzo rispetto a noi, determinata dalla regola, vale a dire nel modo in cui la determinerebbe l’uomo saggio. È una medietà tra due vizi, uno per eccesso e l’altro per difetto. E lo è, inoltre, per il fatto che alcuni vizi difettano, altri eccedono ciò che si deve sia nel campo delle passioni che delle azioni, mentre la virtù e ricerca e sceglie deliberatamente il medio…
Perciò secondo la sua sostanza e la definizione che ne esprime l’essenza la virtù è una medietà, ma secondo l’eccellenza e la perfezione è un estremo…”.




Riflettendo circa il percorso e la centralità dell’EU, mi sono tornate alla mente le parole e la posizione assunte dal noto sociologo Ralf Dahrendorf su “Perché l’Europa? Riflessioni di un europeista scettico” fin dal 1996, ma che nonostante i cambiamenti e mutamenti politici-istituzionali (anche a livello europeo) accorsi in questo quasi ventennio, trovo sempre molto attuali e pertinenti.




Il meta-quesito che fa da padrone nelle riflessioni di Dahrendorf, è la centralità assoluta attribuita all’unione monetaria e collegata a questa: ”qual è il vero motivo per cui oggi noi ricerchiamo l’Unione Europea?
Trovo che uno dei “must” che dovrebbero essere seguiti pedissequamente nelle riflessioni di Dahrendorf, sia la necessità e l’urgenza di guardarci dall’eurocinismo od euroscetticimo. Io condivido pienamente la definizione che il sociologo dava di sé stesso, come europeista scettico che è allarmato dalla frattura esistente fra le intenzioni e le realtà dell’Europa e che vuole ricucire tale frattura.
Ricordava il noto sociologo come: ”la sempre più stretta unione delle nazioni europee è un obiettivo che merita di essere perseguito, ma che ha bisogno urgente di essere definito con maggiore precisione. Il punto di partenza sulla strada verso questa meta è l’Unione Europea così come esiste realmente.
Una delle questioni di fondo sollevate da Dahrendorf e che il sottoscritto a 17 anni di distanza trova sempre drammaticamente reali e realistiche, è se davvero l’unione monetaria contribuisca alla soluzione dei problemi reali degli Stati Europei e dei loro cittadini:
  1.      Disoccupazione
  2.      Competitività
  3.       Riforma Welfare State
  4.       Delusione
  5.       Nuove minacce

Senza passare per cronico pessimista, non mi pare che siano questioni che siano state totalmente o parzialmente risolte, dato che a distanza di quasi 20 anni continuano a ricorrere nelle priorità dei vari programmi europei e delle politiche da implementare. Basti pensare alle priorità della strategia comunitaria Europa 2020 con cui abbiamo iniziato l’articolo.
Sostiene Dahrendorf a proposito del sogno europeo che “le speranze che non si colorano di realtà sono illusioni” ed io mi permetto di aggiungere vane ed inutili illusioni.
Sostenva Dahrendorf che “l’Europa dev’essere un parto della testa, non una questione di cuore. Io non sogno una superpotenza europea, che sieda al tavolo con gli Stati Uniti e la Cina o chiunque altro, in un mondo diviso fra grandi blocchi. Questo d’altronde sarebbe né più né meno che un sogno nazionalistico, con la sola differenza che metterebbe l’Europa al posto dello Stato nazionale…
Penso invece ad un’Europa in cui sia facile viaggiare da Aberdeen a Palermo, in cui il titolo di studi dell’università di Aberdeen sia riconosciuto anche a Palermo, in cui mi sia possibile cambiare senza fatica le mie sterline prese in Scozia in lire prese in Sicilia, un’Europa della convertibilità. La convertibilità è sempre un fatto di testa, laddove l’unità è un fatto di cuore”.
Si tratta di una posizione di criticismo verso un’idea di Europa fino a questo momento presente assolutamente condivisibile, soprattutto in luogo del rigore imposto dall'UE. 
Il rigore da solo non basta.
Ricordo le parole solo pochi mesi fa del Presidente della Consob, Giuseppe Vagas: ”un’austerità senza speranza può diventare il detonatore di una crisi generalizzata…  La risposta va trovata agendo direttamente nell'economia reale.”
Ritorniamo al punto quasi iniziale, cioè si tende sempre a focalizzare l’attenzione sull'unione monetaria, sul pilastro economico-finanziario, tralasciando quello politico e di un’efficacia ed adeguata governance.
Anche nei mesi scorsi il Presidente dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, è intervenuto a proposito delle priorità "di politica economica del nuovo governo italiano", specie in tema fiscale. Lasciando la sede del Consiglio europeo a fine vertice, lo stesso  Ministro dell’Economia, Saccomanni, ha voluto precisare: "Ho ribadito che vogliamo rimanere all'interno degli impegni assunti a livello comunitario, che le misure che stiamo prendendo adesso, che sono misure ben note e che affrontano problemi urgenti, saranno prese in maniera tale da non alterare i saldi della finanza pubblica per il 2013". Il ministro ha voluto sottolineare che il programma presentato è stato largamente approvato dagli addetti ai lavori in Italia: "C'è un ampio consenso politico per fare questo tipo di mantenimento, ovvero  combinare il consolidamento, il rafforzamento della finanza pubblica con programmi di riforme e interventi su questioni urgenti senza sconvolgere gli impegni assunti".
Così come ogni qualvolta l’UE fissa obiettivi specie e soprattutto in tema di finanza pubblica, di efficienza della pubblica amministrazione,  in materia finanziaria e banche, di tassazione e concorrenza.
Come concluse Dahrendorf nelle sue riflessioni: ”ancora una volta l’Europa attraversa un momento di crisi. Speriamo che venga utilizzato con saggezza”.
Non c’è che augurarsi a questo punto che la nuova strategia comunitaria per la crescita che va sotto il nome di Europa 2020, possa davvero rappresentare un nuovo corso nel rilancio di un'economia più competitiva e con un più alto tasso di occupazione, attraverso l’implementazione di politiche intelligenti, sostenibili,  solidali e che possano contribuire a far rinascere dentro la coscienza di ogni cittadino europeo, la centralità e la vicinanza di un’UE come reale istituzione politica, attenta ai bisogni e alle esigenze dell’economia reale e della vita delle persone e non solo ad un’unione monetaria attenta ai vincoli di bilancio e ai vari patti di stabilità.


lunedì 2 settembre 2013

Azione e interazione sociale


In sociologia esiste un paradigma che consiste nel prendere alla lettera il fatto che ogni fenomeno sociale è il risultato di un insieme di azioni individuali (sociologia dell’interazione). Dunque, qualsiasi fenomeno sociale è sempre il risultato di azioni, di atteggiamenti, di credenze e in genere di comportamenti individuali.
La sociologia dell’azione è nata storicamente in Germania con i grandi scritti epistemologici di Max Weber e Simmel.












Posta questa premessa, l’individualismo metodologico è il principio secondo cui ogni fenomeno sociale va preso per ciò che è, cioè il risultato di azioni e comportamenti individuali.
Sostiene Max Weber: “Anche la sociologia non può che prendere le mosse dalle azioni di uno, di alcuni o di molti individui, e ha quindi l’obbligo di adottare metodi rigorosamente individualistici”.
Da un punto di vista sociologico, una società è individualistica quando assegna in generale all'individuo un valore preminente, in senso metodologico la nozione di individualismo implica che per spiegare un fenomeno sociale si debba risalire alle sue cause individuali. Tale approccio parte dal presupposto che l’attore sia stato socializzato, cioè che sia in relazione con altri attori che come lui occupano dei ruoli sociali. Ciò non contribuisce a creare un’immagine atomistica della vita sociale, ma interazionistica.
E ciò appare ancora più evidente in tempi come i nostri, dove il nostro vivere quotidiano, sia professionale che privato è scandito dai concetti di rete e sistema.
Quante volte sentiamo parlare circa la necessità di far sistema, di far rete.
In questo senso, memorabile è la lezione di Von Bertalanffy, per il quale “il solo modo in cui è possibile studiare un’organizzazione è quello di studiarla come un sistema”.
Von Bertalanffy definisce sistema, un complesso costituito da elementi in interazione. Pertanto, qualsiasi soggetto sistemico non è solo un aggregato di elementi, ma un complesso di componenti che interagiscono fra di loro. E’ importante quindi il tipo di legame che si stabilisce, cioè l’interazione, ovvero che le parti necessitino di essere in contatto fra di loro attraverso rapporti biunivoci e feed-back. Ciò è fondamentale affinché un complesso di elementi possa essere definito come sistema, altrimenti in mancanza di interazione tra la parti, avremo un insieme, dove l’unico legame è l’appartenenza ad uno stesso gruppo.
Pertanto, se ragioniamo in termini di scambio comunicativo, significa che la realtà sociale è data da oggetti e attori che non esistono in sé, ma che esistono per me, in quanto entrano in relazione con me in un certo tempo e in un certo spazio. Quindi la realtà è una rete a più dimensioni formata da relazioni tra oggetti e attori/soggetti. Diviene importante quindi cogliere in maniera adeguata sia ciò che entra in contatto con noi, sia il nostro modo di porci nei confronti del reale, quindi iniziare ad attribuire significati di relazione, non in base ad una conoscenza esperenziale o informativa, ma anche imparare a leggere la diversità nello scambio comunicativo che costituisce il modo di essere del soggetto sociale. Essere consapevoli che il mutamento non è il risultato, ma la regola, è il passo iniziale per far si che non sia più l’informazione proveniente dall'esterno a doversi incasellare nella nostra mente, ma devono essere le nostre categorie mentali ad essere costruite in modo da far aderire il nostro pensiero al reale e cioè far si che la rete delle relazioni sociali non ci trovi attori (sistema che può essere letto attraverso diverse forme conoscitive: modalità e significati sono dettati dall’esperienza), ma soggetti (modalità e significati sono dettati dalla comprensione oggettiva, quindi capacità di governare le proprie attribuzioni di significato).
La volontà è diretta dall'intelligenza, dalla capacità cognitiva. 
Ciò che però può in qualche modo condizionare la mia libertà sono limiti interni (volontà, ragione) o esterni (società, relazioni).
Una relazione è tale quando è adeguata, equa, cioè connotata dalla comprensione, dal saper riconoscere la pluralità e l’architettura delle motivazioni altrui. Quindi la possibilità di essere nel mondo, nella realtà, risiede nella capacità di relazione, di scambio intenzionale: essere consiste nello scambiare, nell'entrare in relazione.



domenica 1 settembre 2013

Buon rientro dalle vacanze...


Panta Rei augura a tutti voi un buon rientro dalle vacanze, auspicando che siano state ferie che abbiano ritemprato e ricaricato le batterie dopo un lungo periodo fatto di fatiche, pensieri, lavoro, impegni...




Non per nulla, il buon Cesare Pavese ne "Il mestiere di vivere" (1935/50) ricordava quanto:" Si aspira ad avere un lavoro per avere il diritto di riposarsi".


Non si può neanche non ricordare il saggio Pascal che nei suoi "Pensieri" (1670) ricordava quanto:"La felicità vera è nel riposo, non nel trambusto".



Infine, ancor più saggia è la massima di Rousseau nel suo "Saggio sull'origine delle lingue" (1755) nel quale egli sosteneva:"Tutti lavoriamo per arrivare al riposo: è ancora la pigrizia a renderci laboriosi".



Per quanto ci riguarda, il blog riprenderà nei prossimi giorni con la sua consueta attività con nuovi articoli subito a partire da domani e con nuove ed interessanti novità.
Buon proseguimento a tutti e a presto.